lunedì 26 febbraio 2024

La gioia avvenire - Stella Poli

Le cose non andrebbero dette mai. Scritte, sempre.

Titolo sconosciuto di autrice sconosciuta. Dalla quarta di copertina si intuisce che ci saranno temi spinosi. Dalle primissime righe intuisco anche una scrittura "strana", chissà se riuscirò a farmela piacere. 

Il titolo del romanzo è il titolo di una poesia di Franco Fortini: con la poesia faccio un po' fatica, non è entrata nelle mie corde. Dello stesso autore ho preferito Foglio di via

Dopo le primissime pagine - forse è presto per giudicare, ma per definizione, una prima impressione si forma sulle prime pagine - la cosa più irritante è la scrittura, che mi suona dilettantesca. Guardo meglio in terza di copertina e leggo che l'autrice è "assegnista di ricerca in linguistica italiana" per cui forse dovrei vergognarmi per aver parlato di dilettantismo e cospargermi il capo di cenere. Ma tant'è: la scrittura è anche una faccenda musicale, se lei è linguista io sono musicista, e a me queste pagine non suonano bene per niente. 

Usa molte metafore esagerate, un po' ingombranti, che appesantiscono la lettura; cerca termini e vocaboli desueti che però poi non rendono immediatezza quindi sulla pagina non scorrono, fanno l'effetto della carta vetrata e invece la ricerca del termine desueto dovrebbe avere lo scopo di trovare il vocabolo perfetto che calza come un guanto; usa spesso il "ché" al posto di un semplice "perché" o di un semplice "così": da tutte queste caratteristiche si direbbe che voglia scrivere in maniera raffinata, quasi ottocentesca. Bene, glielo concedo. Poi però si trovano frasi scarne con totale assenza di punteggiatura e un solo verbo messo ad una qualche maniera. E allora le frasi scarne di questo genere, in stile Cormac McCarthy, fanno a pugni con la ricerca di raffinatezza ottocentesca di cui si diceva prima. Uno quando scrive deve decidere se vuole essere carne o pesce, non può fare un po' e un po'. Ho il serio timore che questo stile di scrittura me lo tirerò dietro fino in fondo, anche perché il romanzo è piuttosto breve. 

Comunque sia: c'è un racconto abbastanza dettagliato dell'infanzia, narrato in prima persona, che lascia presagire un disastro, si capisce che si tratta della quiete prima della tempesta. 

Fino ad ora, due frasi belle che vale la pena di annotare e finanche riutilizzare: da pag. 14: "imparare a cadere meglio che nei film americani" (molto più elegante del banale "cadere sempre in piedi"). 

E l'incipit: "Le cose non andrebbero dette mai". Poi nella mia testa l'ho immediatamente ed inesorabilmente integrato con una ulteriore precisazione. "Le cose non andrebbero dette mai. Scritte, sempre." 

E difatti io scrivo, scrivo tutto quello che non mi va giù, e la scrittura di questa autrice continua a parermi tutta una sciarada, un terribile esercizio di stile. 

Arrivo al momento del trauma, del disastro: una violenza da parte di un quarantenne, ai danni di una quattordicenne, e per di più una violenza che si configura come forma di vendetta contro la di lui moglie, questo è già un fatto sufficientemente crudo. Ma la parte peggiore deve ancora venire: il vero pugno nello stomaco è nella reazione del padre della ragazzina di fronte ai sospetti, di fronte al subodorare quel che sta accadendo. E' una cosa talmente truce che son rimasta lì per un po' a chiedermi se e quanto ci sia materiale (auto)biografico in questa cosa. Anche ammettendo e premettendo che un padre possa avere qualche difficoltà/perplessità nell'affrontare i problemi che riguardano la sfera sessuale della vita della figlia, anche considerando questo, la sua reazione è a dir poco crudele. Ma dopo un secondo mi sono ricordata delle crudeltà (puramente verbali, per carità, ma ce n'era abbastanza) completamente insensate e immotivate che mi hanno indirizzato i miei, di genitori, e quindi senza doverci più riflettere tanto giungo subito alla conclusione che sì, i genitori ce la fanno benissimo, a essere crudeli in maniera gratuita e immotivata: ce la fanno nella realtà come nei romanzi. 

Ho terminato la lettura in una notte di neve fitta e sottile, e così è calata un'alba violacea sul libro di Stella Poli (uno sciocco gioco di immagini e associazioni di idee: notte innevata - stella poli - stella polare. Buon Natale. Del resto era proprio il giorno del Natale ortodosso). Non credo che il libro mi lascerà granché: quella terribile costruzione delle frasi lasciate in sospeso, frasi spezzate, quel dire per non dire, oppure quel non dire per dire, un fiume di parole che non porta da nessuna parte, un fiume che si perde in una palude. 

E poi: più terribile dello stupro è la crudeltà del padre, ma ancor più crudele del padre è la mancanza di un sollievo nel finale. Non dico ci dovesse essere per forza un lietofine, per carità, e non certo una "guarigione", però un qualche cambiamento, una minima formazione, una qualche epifania C'è solo un barlume, una parvenza di epifania ma talmente piccola e flebile che non si può proprio chiamarla "finale". 

E poi mi accorgo che - con la narrazione che saltella dalla prima alla terza persona - non ho neanche ben compreso le protagoniste. Nadia e Sara. Sono due persone distinte che hanno avuto trascorsi analoghi? O è la stessa persona che si sdoppia, nella sofferenza sdoppia la sua personalità e parla di sé un po' in prima e un po' in terza persona? Oppure: la protagonista Sara, che da giovane ha subìto la violenza e che ora da adulta fa la psicoterapeuta, andando a parlare con l'avvocato ha fatto finta di parlare per una paziente immaginaria, Nadia - un po' come succede nei film e anche nelle barzellette, uno va dal dottore e parla sempre per conto di un amico o di un cugino, ma in realtà è di sé che parla. Sì, forse quest'ultima ipotesi è quella corretta ma in ogni caso mi irrita il fatto che non sia stata di immediata comprensione. Il romanzo affronta tematiche "necessarie" ma con questa scrittura diabolica gli dà una teatralità fuori luogo, sconveniente, non richiesta. 

Per completezza, per dovere di cronaca (sotto cui nascondo un puro spirito polemico) voglio citare l'apice, il parossismo dell'inutilità acrobatica delle metafore: "Ma poi preservavo quel dolore come una galleria del vento."

Cosa diavolo vuol dire? Intende dire che una galleria del vento preserva qualcosa al suo interno? In effetti una galleria del vento è intesa come luogo all'interno del quale isolare qualcosa dall'esterno, dal resto del mondo, ma allora la frase doveva essere "...preservavo quel dolore come IN una galleria del vento." Che poi non avrebbe senso ugualmente perché nella galleria del vento si isola un oggetto per testarne l'aereodinamicità, mica per metterlo sottovuoto come fosse un prosciutto. Oppure intendeva dire che una galleria del vento è una cosa da preservare sempre con cura? Potremmo chiedere alla Fiat, perché non è che proprio tutti abbiano giù in garage una galleria del vento. Conosco un cacciatore che nel seminterrato si è fatto fare un piccolo tunnel che usa come poligono di tiro, per tarare la carabina. Ma di gente con la galleria del vento, nel seminterrato, nessuno. Questa furbata inutile della galleria del vento, nella mia classifica personale, resterà seconda solo alla "barba che si implica di salgemma" ne Il diavolo sulla quarta corda di Giovanna Strano. 

E sarà proprio un caso che Giovanna Strano è dirigente scolastica e Stella Poli è "assegnista di ricerca in linguistica italiana"?

Dunque, del libro mi resterà qualcosa di buono: l'incipit opportunamente integrato, e Franco Fortini. Un po' pochino, ma meglio di niente. 




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